Le grandi storie di Al Broadbeancooked - III
Uno, due, tre, quattro, come gli aghi di pino coperti di neve, cinque, sei, sette, il freddo punge la pelle e cristallizza l’umido, otto, nove, in geometrie ignote sulla schiena nuda, dieci. E un altro è andato. Essere arrivati fin lì e la sensazione, adesso, di poter perdere tutto. Nicholas Caine, che con la piccola Geena dai pantani di Greenbow, Alabama, aveva puntato i suoi quattro Dunlop verso nord, verso la micacea Pittsbourgh davanti ai cancelli chiusi delle acciaierie, lui ancora sull’asfalto e sulla bocca della gente perbene per quella presunta omosessualità di cui troppo s’era detto senza chiarire mai, Nicholas Caine, con i piedi nella neve. Un altro colpo: uno, due, tre e allora lui affidò senza una lacrima la piccola Geena a una badante negra e salpò clandestino su un cargo mediorientale, cinque, sei, contrabbando di alcol, si diceva, spremute di cedro o qualcos’altro, sulle coste del Libano. Nove. Porto di Beirut, molo n°84. Dieci. I passi si avvicinano e affondano con un crocchio morbido nella neve, di nuovo s’arrestano alle spalle di qualcuno, poi parte colpo durissimo, che tra gli abeti e le betulle intorno alla radura trova un’eco attutita dalla coltre bianca. Uno, due, tre e uscito dal container si ritrovò a Tripoli in un pomeriggio arancione di caldo polveroso, e cazzo se l’avevano incastrato. Sei, sette, dai, vediamo chi resta in piedi, otto, nove, dieci. Uno di meno, si disse così anche allora prima che le falangi maronite si occupassero di lui. Quello che accadde poi non è facile da ricordare: a pagina 100 c’è sicuro Batman, c’è Mennea, non ricorda a quale titolo, e c’è che da Tripoli volò ad Helsinki, con l’altoparlante che gracchiava un Heellsinnki spremuto e rotondo: questo lo aveva sentito e messo da parte, perché ora tornano solo i ricordi più superflui, tra i quali le estati a Deer Beach oppure Pirro appeso per un piede a una cancellata con una sporta di merda in mano. Così. E adesso eccolo Nicholas Caine da Greenbow, Alabama, le mani legate dietro la schiena, dietro la sedia, i muscoli tesi, i denti stretti. Colpito, l’altro. Uno, due, tre è questa sensazione di vulnerabilità che lo paralizza, come quando la Sitty scorreva con il dito sul registro per quelle domande sulle Twin Towers e quell’insegnante con il naso picassiano poi, che gli alitava sul collo e che forse lo aveva anche molestato, cinque, sei, Helsinki. Nell’infinito crepuscolo finlandese, il cielo, gli alberi, la pelle nuda e livida degli altri stronzi in mutande come lui, un circolo scelto, tutto s’era velato d’argento e azzurro, e poi il nero, il buio della benda, otto, nove, dieci. Dieci: è il momento, non ce sono altri, ma sarebbe di molto preferibile una sgugna su uno di quei tronchi coperti di licheni. I piedi nella neve, l’umido cristallizzato sulla schiena nuda gli disegna l’uno di Galli, il freddo che si insinua tra le dita, dentro le ossa e i polmoni, i denti stretti, le giunture bloccate, sa che tocca a lui ed il collo gli s’irrigidisce e non dovrebbe, non lo sente, non sente niente. Un bagliore rancido è un momento che non descrive perché la neve gli sta intorno adesso, sulla faccia e tra i denti, sente il freddo sulla barba che anestetizza l’orecchio, la benda umida sugli occhi, scaraventato a terra, tre, colpito, quattro, sull’orecchio sinistro come s’aspettava, cinque, troia ladra che male bastardi, sei, quello che c’è da fare quello che c’è da fare, sette, comincia a strappare a strappare il braccio destro che non si libera, otto, strappa il braccio destro lo strappa è fuori il polso la corda è sul palmo e strappa, nove, è fuori il braccio destro fa un arco laterale e solleva la neve s’inclina il tronco gira la testa, dieci. Ha già toccato la fronte. Brutti froci, voi e i vostri giochi del cazzo.
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